Dalla seconda metà del Novecento, sull’onda delle nuove istanze femministe e di riformulazione dei ruoli precostituiti nelle mansioni domestiche, diversi progetti urbani e architettonici cominciano a elaborare soluzioni il cui obiettivo è rendere collettivo il lavoro riproduttivo non retribuito, e si comincia così a ragionare sull’idea di comunità di sostegno alle donne.
Negli ultimi cinquant’anni è aumentato l’isolamento delle famiglie nelle loro abitazioni in cui si svolgono tutte le mansioni “domestiche” quali la cura degli spazi, la gestione del cibo, l’allevamento dei figli, ecc., che ancora oggi gravano maggiormente sulle donne. La pandemia ha fatto emergere l’insufficienza degli spazi domestici e i perduranti squilibri di genere nei carichi di cura, comportando per molte donne la rinuncia al lavoro retribuito nell’impossibilità di conciliarlo con la vita privata e il lavoro di cura.
In questo quadro il progetto per l’abitare può contribuire a ripensare l’organizzazione del lavoro di cura e di ciò che le case ripropongono più o meno consapevolmente nella propria definizione spaziale.
Due lunghi saggi pubblicati su DEP deportate, esuli, profughe, rivista telematica sulla memoria femminile di Università Ca’ Foscari di Venezia, approfondiscono questo tema. È possibile leggerli ai link sottostanti.