Paola Centomo su StartupItalia il 24 marzo 2022
Città più inclusive: progettarle secondo una prospettiva di genere
L’associazione di promozione sociale “Sex & the City” ha redatto il primo atlante di genere di Milano: come ripensare la città tenendo conto anche delle esigenze delle donne e delle minoranze di genere?
Può l’urbanistica contribuire alla parità di genere, un traguardo invocato ormai in ogni dove del pianeta e perseguito come il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 dell’ONU? E in che modo, la pianificazione urbana di genere può progettare città finalmente inclusive e ambienti urbani che rappresentano, davvero, il punto di vista e i bisogni della molteplicità dei cittadini? Per la prima volta uno studio su una nostra città – Milano – fa luce sulla condizione delle donne e sui limiti e gli ostacoli che queste incontrano nella vita di ogni giorno e mostra che quando l’urbanistica incontra gli studi di genere e pone lo sguardo sulle persone, sulla vita concreta e sul suo svolgersi nel quotidiano può, in risposta, costruire soluzioni capaci di rivoluzionare le città, a vantaggio di quanti e quante le abitano. Lo studio, che si chiama Sex and the City ed è stato commissionato da Milan Urban Center (ovvero, Comune di Milano e Triennale Milano), è stato condotto da Florencia Andreola, ricercatrice indipendente e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura, e da Azzurra Muzzonigro, architetta, curatrice e ricercatrice urbana indipendente, ed è oggi in parte confluito in un saggio pressoché unico, Milano Atlante di genere (LetteraVentidue Edizioni). Facciamo il punto con le due curatrici.
Non ci riflettiamo a sufficienza, ma le città non sono progettate in maniera neutrale: piuttosto, sono prevalentemente costruite sui bisogni del genere maschile e delle persone che lavorano fuori casa. Donne, bambini, ragazzi, persone con handicap ne sperimentano ogni giorno ostacoli e limiti.
Effettivamente è così: si ritiene che gli standard urbanistici siano basati su soggetti ritenuti neutri, ma questa neutralità sottende in realtà un progetto maschile, esattamente come è sul maschile che è conformata la nostra società. Faccio un esempio molto concreto. Il modello di mobilità che vige è costruito sul lavoro e, perciò, prevede sostanzialmente lo spostamento casa-lavoro e viceversa funzionale alla giornata lavorativa: si tratta di un tipo di movimento tipicamente maschile, perché lascia fuori tutte le attività quotidiane di cura che sono, al contrario, per il 75% sulle spalle delle donne. Per converso, invece, le attività di cura generano spostamenti in città per tappe concatenate, spostamenti segmentati, per lo più locali e pedonali. Si tratta del cosiddetto trip chaining: chi si prende cura di soggetti non autonomi, infatti, la mattina esce, porta i bambini a scuola, quindi va a fare la spesa, infine va al lavoro, ovvero compie tragitti più brevi, non lineari, non composti.
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